Il viaggio è quindi metafora della fuga dall’isolamento, un modo per incontrare qualcuno. Prima della partenza per questo viaggio verso gli altri, il Piccolo Principe risistema il suo mondo interno (“
mise bene in ordine il suo pianeta”), distingue gli aspetti di sé che consentono una crescita sana dagli aspetti distruttivi (distrugge i baobab e si cura della rosa). Sul pianeta si affacciano anche i vulcani, che vanno tenuti puliti per utilizzare la loro energia “
per scaldare la colazione…”, perché “
se i camini sono ben puliti, bruciano piano piano, regolarmente senza eruzioni..”. E’ l’idea di prendersi cura degli aspetti di sé aggressivi, delle pulsioni che sono vitali nel momento in cui sono piegate a scopi costruttivi. Prima della partenza pulisce il suo pianeta, innaffia il suo fiore e cerca di proteggerlo sotto una campana di vetro. Gli interrogativi che il Piccolo Principe pone nel suo viaggio sono domande sull’ovvio: “
Perché le pecore mangiano i fiori? Perché le rose hanno le spine?”.
Il
percorso sta nel debanalizzare l’ovvio, che non è affatto
scontato.
Le
prime battute dell’incontro con l’aviatore sono incentrate su
disegni che gli adulti banalizzano, vedendone soltanto l’aspetto
esteriore: il cappello/boa che digerisce un elefante, la scatola con
i fori che contiene la pecora che il Piccolo Principe aveva chiesto
di disegnare. La rappresentazione non pittorica suggerisce ad un
bambino l’immagine di ciò che c’è dentro, ma non evoca nulla in
un adulto, troppo legato alla concretezza delle rappresentazioni.
Il
Piccolo Principe atterra su diversi pianeti in cui rileva
l’impossibilità di dar vita ad una reale comunicazione, allo
scambio di conoscenze. Nei suoi incontri, la più semplice delle
attività umane -parlare con qualcuno ed essere ascoltati- diventa
qualcosa di difficile, complicato al punto di divenire uno schema che
si riproduce coattivamente.
Finalmente
sulla terra un incontro trasformativo che cambierà il copione
relazionale del Piccolo Principe.
Il
Piccolo Principe cerca gli uomini per scoprire gli amici e per
conoscere cose nuove. La volpe risponde con due affermazioni: la
prima che addomesticare significa “creare
legami”,
la seconda che rispetto ad un progetto di conoscenza “non
si conoscono che le cose che si addomesticano”.
Il
punto è: come si fa ad addomesticare qualcuno?
La
soluzione proposta dalla volpe è straordinariamente semplice:
“Bisogna
essere molto pazienti”.
S’intravede la possibilità di rompere le strutture relazionali
codificate e rigide degli incontri precedenti nei vari asteroidi
visitati. Nell’addomesticamento non è possibile superare di colpo
le distanze, in quanto le parole possono ingenerare malintesi; per
cui è sufficiente il silenzio che accompagna l’ascolto per avviare
il processo di conoscenza.
Nello
stabilire dei legami è implicito il separarsi.
Il
rito contiene in sé il momento della separazione nel succedersi
degli incontri e, implicitamente, il momento della separazione
finale. Il momento del distacco va pensato, preparato, come fa la
volpe col Piccolo Principe.
Se
non ci si separa non ci si differenzia, non ci si individua, dunque
non si cresce. Il Piccolo Principe fatica a comprendere la necessità
di separarsi. La volpe annuncia che piangerà alla partenza. A
maggior ragione se la partenza significa dolore: “Che
ci guadagni?”
chiede il Piccolo Principe…“Ci
guadagno il colore del grano”: il ricordo delle esperienze buone
che ho avuto con te.
Il
compito dello psicologo è proprio questo, creare legami e rendere
possibili le separazioni.
Stando
a quanto detto possiamo considerare l’incontro del Piccolo Principe
e della volpe come la metafore di ogni colloquio riuscito.
Avvicinarsi a un primo colloquio con un nuovo paziente è pressappoco come il momento in cui il Piccolo Principe lascia il suo asteroide; come diceva infatti lo psicoanalista britannico Wilfred Bion, necessita della capacità di “sostare nell’incertezza”.